Chiostro dei Silvestrini: una scomoda eredità

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«Immaginate di aver ereditato una villa. Di questa villa conoscete le stanze, il mobilio e gli arredi. Nella villa ci sono anche delle soffitte piene di scatole e bauletti. Di tanto in tanto avete l’occasione di aprire queste scatole e questi bauletti e scoprire qualcosa di più su chi ha vissuto prima di voi nella villa. Alcune volte le scatole sono molto belle e sembra che contengano delle meraviglie, poi le aprite e non c’è nulla, oppure qualcuno ci ha rovistato prima di voi e dentro ci sono solo cianfrusaglie. Altre volte si tratta di scatole anonime che inaspettatamente possono contenere tesori». Così Valeria D’Aquino, archeologa, collaboratrice della Soprintendenza Archeologica della Toscana, spiega, davanti agli scavi del Chiostro dei Silvestrini nel Museo di San Marco, il significato ultimo del lavoro archeologico in una città storica e stratificata come Firenze. L’occasione è data dalle Giornate europee del Patrimonio del 24 e 25 settembre 2016, che avevano come tema appunto l’eredità culturale. Un lavoro, quello dell’archeologo, di ricomposizione di frammenti di storia, non solo di tutela costante. Di verifica continua delle fonti scritte, attraverso quelle materiali.

Immaginate adesso di essere proprietari di un monastero nella zona di Cafaggio, a Firenze, fin dalla fine del 1200, e di chiamarvi Silvestrini. Immaginate che, quando ormai avete fondato una chiesa e l’annesso cenobio di San Marco al posto del primo piccolo oratorio intorno a cui vi eravate raccolti, qualcuno voglia portarveli via. Non un manipolo di squatter o di famiglie senza dimora guidati dal “Movimento di lotta per la casa”, ma una comunità di domenicani dell’osservanza provenienti da Fiesole che vogliono insediarsi proprio dove siete voi. Non accanto o di fronte al vostro monastero, ma esattamente nel vostro.

Damnatio memoriae

Tutte le comunità religiose felici si assomigliano tra loro, ogni comunità religiosa infelice lo è a modo suo, si potrebbe dire parafrasando il famoso incipit di Anna Karenina. Su qualcuna, in particolare, grava il peso di una cancellazione o deformazione della memoria.

Nel museo di San Marco, il piccolo Chiostro dei Silvestrini, purtroppo non più accessibile al pubblico da anni, è intitolato agli antichi abitatori del convento. È un luogo segreto, nascosto, una sorta di “centro dell’interiorità” del convento, per dirla in termini junghiani. Il nucleo, insieme alle zone originariamente di servizio, meno manomesso dall’intervento di Michelozzo.

Gli scavi eseguiti tra il 2010 e il 2011 da Valeria D’Aquino, in questo chiostro, ci hanno consentito di fare un passo avanti nel recupero della memoria dei silvestrini, nel “processo di individuazione” che gradualmente, da almeno venticinque anni, sta restituendo dignità alla vicenda storica e umana di questa sfortunata congregazione religiosa.

Nicola e Giovanni Pisano, San Silvestro riceve la regola da San Benedetto, Fontana Maggiore, Perugia, 1277-1278
Nicola e Giovanni Pisano, San Silvestro riceve la regola da San Benedetto, Fontana Maggiore, Perugia, 1277-1278

Silvestrini, chi erano costoro?

Nell’art. 2 della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa del 2005 sul valore dell’eredità culturale per la società, nota come Convenzione di Faro, leggiamo:
L’eredità culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi.

Parole giuste e condivisibili. Ma si può parlare di eredità anche in presenza di una secolare rimozione?

Chi erano questi Silvestrini? Sappiamo poco, pochissimo di loro. Sappiamo che erano monaci benedettini provenienti da Montefano, riformati nel 1231 dal loro fondatore Silvestro dei Guzzolini (Osimo 1177- Montefalco 1267). Sappiamo che il loro monachesimo, molto diffuso nel corso del XII secolo, era improntato a una profonda austerità, e che la loro regola consentiva di conciliare la vita eremitica con la predicazione, la contemplazione con la possibilità di avere una parrocchia. Sappiamo che nel 1290 diventano proprietari di un oratorio nella zona di Cafaggio, a nord-est della Civitas Vetus di Florentia, acquistandolo dalla Confraternita di Santa Maria.

Cafaggio era una zona boschiva, libera da costruzioni, a bandita di caccia e pesca, compresa tra la vecchia cinta di mura comunali del XII secolo e l’edificanda cinta arnolfiana del XIV, nei cui pressi scorreva il Mugnone. Una zona suburbana non proprio adatta, per la sua selvatichezza e insalubrità, alla cura pastorale delle anime. O forse adatta proprio per questo: per la sua prossimità alla campagna, dove i poveri sono più bisognosi. Comunque sia, la nuova parrocchia nasce: il 1 luglio 1300 viene solennemente inaugurata dal vescovo Francesco Monaldeschi e da tutto il clero fiorentino. L’oratorio, detto di San Marco Nuovo per distinguerlo da San Marco Vecchio sulla via Faentina risalente all’XI secolo, nel giro di poco tempo diventa una chiesa a aula unica con accanto il suo monastero e davanti una piazza. Né più né meno di quanto accadeva agli insediamenti religiosi mendicanti, che solitamente sorgevano attorno a un piccolo oratorio. L’insediamento dei silvestrini fa parte, infatti, del processo di stanziamento dei nuovi ordini religiosi fuori dalle mura del XII secolo, cominciato nei primi decenni del XII e continuato fino al XV secolo. Un processo che definirà, dal punto di vista urbanistico, le direttrici radiali della città all’interno delle nuove mura di Arnolfo di Cambio, terminate nel 1333. Si pensi ai domenicani di Santa Maria Novella, ai francescani di Santa Croce, ai carmelitani del Carmine, agli agostiniani di Santo Spirito, ai servi di Maria in S.S Annunziata.

Fino all’inizio del 1400 i silvestrini, grazie a finanziamenti di privati, elargizioni, esenzione delle imposte, possono occuparsi degnamente della manutenzione dell’immobile e ornare di opere importanti la chiesa.

Tutto ciò che sappiamo della rovina dei silvestrini e della loro condotta scandalosa, ce lo dicono le fonti domenicane: gli Annalia e le cronache del convento. Fonti risalenti agli anni trenta del 1400.

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Veduta di Piazza San Marco nel testo di Giuseppe Richa, 1758

Guerra tra poveri

Dei domenicani sappiamo tutto, invece. Sappiamo vita morte e miracoli del loro fondatore, dei loro maggiori filosofi, del loro primo martire, del loro angelico artista, del più ardente dei loro priori. Sappiamo tutto della loro regola, della loro genealogia, della loro lotta senza quartiere all’eresia come domini canes.

Sappiamo anche che l’ordine era stato riformato da Giovanni Dominici (Firenze 1357 – Buda 1419) all’inizio del 1400, e coloro che avevano aderito alla sua riforma si facevano chiamare domenicani dell’osservanza o riformati.

Sappiamo che a partire dal 1418 i domenicani dell’osservanza, rientrati nel conventino ancora incompiuto di San Domenico sotto Fiesole, dopo l’esilio a Foligno, scalpitavano per avere un convento in Firenze, ed erano convinti che quello adatto alle loro necessità dovesse essere proprio il monastero dei silvestrini a San Marco.

I primi anni del 1400 sono duri anche per loro, spediti qua e là, in esilio o in rifugi di fortuna, a causa dello scisma della Chiesa. Le loro istanze di trasferimento in una sede cittadina, tra molti appelli e suppliche ai potentati del tempo, vengono accolte solo nel 1436, quando si aggregano alla politica urbanistica medicea di espansione lungo l’asse di Via Larga fino a Cafaggio, sul quale stava sorgendo il Palazzo di famiglia, era stata ampliata la basilica di San Lorenzo e dove sarebbe stata fondata l’Accademia nel Giardino mediceo.

Cosimo e il fratello Lorenzo de’ Medici, amici dei domenicani, colgono l’importanza di avere un presidio culturale nel polo conventuale più prossimo alle mura, verso Porta San Gallo, e si fanno promotori della cacciata dei silvestrini, scatenando prima una pubblica petizione, poi una feroce campagna diffamatoria contro di loro. Un vero e proprio pogrom. Il popolo fiorentino si convince che i silvestrini si siano allontanati dalla regola monastica e pertanto non siano più degni di abitare in un monastero. Cosimo il Vecchio fa pressioni su papa Eugenio IV, in esilio a Firenze, perché risponda all’interpello dei domenicani. Il pontefice si mantiene prudente e incarica due visitatori apostolici di verificare le maldicenze popolari contro i silvestrini.

L’esito dell’inchiesta assolve i silvestrini da ogni accusa di dissolutezza, ma i domenicani non demordono. Allora Eugenio IV propone una soluzione di compromesso: offre ai domenicani di insediarsi accanto alla chiesa di San Giorgio alla Costa, in Oltrarno, e riunire sotto un unico priore le due comunità di San Domenico e di San Giorgio. Niente da fare: i domenicani ritengono periferica e scomoda la sede di San Giorgio; il loro convento deve sorgere assolutamente a San Marco.

La controversia tra silvestrini e domenicani si inasprisce. Le pressioni medicee sul papa anche. Finalmente, la lunga e annosa vertenza si conclude il  21 gennaio 1436, quando il papa Eugenio IV scrive una bolla in cui vengono sanciti il trasferimento dei silvestini a San Giorgio alla Costa e l’assegnazione di San Marco ai predicatori dell’osservanza. I silvestrini ricusano la bolla pontificia, che di fatto li espropria del loro monastero, e presentano ricorso al concilio di Basilea.

Va detto che questi domenicani riformati non solo avevano in Cosimo il Vecchio un potente e ambizioso protettore che si comportava come un ente pubblico, ma vantavano, all’interno della loro comunità, personalità di prestigio come Antonino Pierozzi, in quel momento Vicario Generale dell’Osservanza nell’area a sud dell’Appennino tosco-emiliano, rinomato teologo, futuro priore del convento e poi arcivescovo di Firenze; e Fra Giovanni da Fiesole, artista informato al più aggiornato linguaggio del tempo, quello di Masaccio, Donatello e Brunelleschi. Difficile, pertanto, competere con loro.

Cosimo il Vecchio, anche dopo la morte del fratello Lorenzo, si assume tutti i costi dell’operazione, 36.000 ducati, e incarica il suo architetto di fiducia Michelozzo della ristrutturazione del convento, affinché diventi il fiore all’occhiello del suo mecenatismo culturale e religioso. Non per niente a San Marco sorgerà la prima biblioteca pubblica d’Europa.

Al momento del loro arrivo a San Marco, i domenicani registrano negli Annalia lo stato di estrema precarietà in cui alloggiavano i silvestrini nel loro dormitorio, in celle di legno diroccate e letti di fortuna: «Dormiebantque in cellulis semirutis, et in nonnullis etiam ligneis rusticano more confectis…» (Codice San Marco 370, Biblioteca Laurenziana).

La fabbrica di San Marco

I lavori di riattamento cominciano nel 1437, quando il ricorso dei silvestrini dà ragione ai domenicani, e terminano nel 1443, anno in cui Eugenio IV consacra l’altar maggiore della chiesa e soggiorna per l’occasione nella cella riservata a Cosimo de’ Medici all’estremità del dormitorio nord. Tuttavia, i domenicani avevano occupato il monastero già nel 1436, per scongiurare, con la loro presenza, eventuali ripensamenti da parte dei silvestrini. Per due anni, finché non viene ultimata l’edificazione di due dormitori su tre, vivono praticamente dentro il cantiere michelozziano, in condizioni di estremo disagio.

Nella predella della Pala di San Marco, che Cosimo commissiona a Beato Angelico nel 1438 per l’altare maggiore della chiesa e che viene terminata dall’artista presumibilmente entro il 1441, la scena del Seppellimento dei Santi Cosma e Damiano, ambientata in piazza San Marco, mostra il convento in una fase dei lavori in cui il corridoio sud, dei novizi, non era stato ancora costruito.

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Beato Angelico, Sepoltura dei Santi Cosma e Damiano, Pala di San Marco, 1438-1441, Museo di San Marco

Stando alle cronache del convento, i domenicani avevano ereditato dai silvestrini un monastero completamente distrutto, di cui erano rimasti in piedi solo la chiesa e il refettorio grande: «Maximam enim et pene incredibilem ruinam minabatur conventus omnis, preter ecclesiam, que bonis parietibus tectum pro magna parte reparatum sustentabat; et preter refectorii testitudines, que firmissimis superaedificatę parietibus ad hanc diem integre perdurant» (Codice San Marco 370, Biblioteca Laurenziana).

Sulla scorta delle ipotesi ventilate da Vasari, anche gli storici del Sei-Settecento (Del Migliore, 1684; Richa, 1758), ci avevano trasmesso l’idea che Michelozzo avesse atterrato le rovine del vecchio monastero per «tirarlo su da’ fondamenti, ornarlo, renderlo scompartito» (F.L. Del Migliore, 1684).

Nel 1989 il crollo accidentale di una parte del pavimento del corridoio del giovanato, su Piazza San Marco, causato dal cedimento di una delle volticciole di riempimento sottostanti, ha ribaltato sorprendentemente quest’ipotesi. Sotto il piano di calpestio del corridoio, infatti, sono state rinvenute delle pitture murali nascoste, fino a quel momento impensabili, appartenenti al periodo dei silvestrini. Alcune in corrispondenza delle pareti alte dell’Ospizio dei pellegrini, nell’intercapedine tra le volte dell’Ospizio e il pavimento del corridoio del giovanato; altre sotto il piano di calpestio delle celle.

Si tratta di frammenti di pittura di vario tipo. Sopra l’antico Ospizio, sulla parete perimetrale che dà sulla piazza, i frammenti sono a soggetto profano e consistono in decorazioni vegetali, floreali, con volatili; quasi a confermare la destinazione “civile” dell’ambiente, come luogo di accoglienza dei viandanti. Sotto alle celle, invece, nelle pareti che si affacciano sul chiostro di Sant’Antonino, in particolare nella cella 17 del giovanato e nella cella 22 del dormitorio dei chierici, i soggetti sono religiosi e devozionali, con un’iconografia che rimanda inequivocabilmente ai silvestrini. Nel corso dei lavori di consolidamento del solaio, sono state fatte ulteriori ispezioni, sotto il piano dei dormitori, ma non sono stati rintracciati altri frammenti di dipinti. Solo quelli delle celle 17 (Sant’Antonio abate e San Benedetto) e 22 (Vir dolorum) sono oggi visibili, attraverso dei fori nel solaio e un sistema di specchi all’interno delle volticciole.

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Decorazioni murali rinvenute sotto il solaio del Dormitorio dei novizi, al di sopra delle volte a crociera michelozziane dell’Ospizio dei pellegrini

La semplice esistenza di questi frammenti di pittura murale ha smentito le narrazioni invalse fino al 1989, per darci un’altra lettura del progetto di Michelozzo, che, incorporando il monastero dei silvestrini, si configura come un moderno intervento di ristrutturazione. Del resto negli Annalia domenicani si parla, più correttamente, di “restauri”. Michelozzo si misura, perciò, con una struttura preesistente, in molte parti ancora integra e non diroccata, e il suo intervento consiste in una più razionale e coerente riorganizzazione degli ambienti intorno a due grandi chiostri. Il piano del dormitorio è il risultato di una sopraelevazione che ingloba il precedente, più basso. Secondo la campagna di rilievi e analisi pubblicata nel volume La chiesa e il Convento di San Marco a Firenze (I, Firenze, 1989), il dormitorio dei silvestrini sarebbe stato plausibilmente alla stessa quota degli attuali ambienti di servizio del museo, al livello del piano ammezzato che si trova tra la sala dell’Ospizio e il quartiere di Savonarola.

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Pittura murale con Sant’Antonio abate e San Benedetto rinvenuta sotto il solaio del Dormitorio dei novizi, Cella 17
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Vir dolorum, pittura murale rinvenuta sotto il solaio della cella 22, Dormitorio dei chierici
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Dettaglio di decorazione murale rinvenuta sotto il solaio della cella 22 del Dormitorio dei chierici

C’è povertà e povertà

Per molto tempo la leggenda nera dei silvestrini ce li ha rappresentati come “brutti sporchi e cattivi” e soprattutto poveri. Come se la povertà fosse una colpa e non una regola. La povertà e le miserevoli condizioni di vita dei silvestrini, tali da renderne necessaria l’espulsione da San Marco per decenza, sono un topos delle cronache domenicane. Ora, che un ordine mendicante fedele alla regola di povertà volontaria del fondatore Domenico di Guzmàn, riformato da Giovanni Dominici per aderire maggiormente all’austerità delle origini, rimproveri ai silvestrini la loro povertà, è uno dei paradossi di questa storia. Il rinvenimento di pitture murali di qualche pregio artistico, oltre che documentario, appartenenti ai silvestrini, ci restituisce di questa congregazione un’immagine sicuramente meno trogloditica di quella tramandataci dalla vulgata domenicana e dalla propaganda medicea, e ci costringe a ripensare il ciclo angelichiano di affreschi all’interno di una possibile tradizione di dormitori conventuali dipinti.

Insieme al Chiostro dei Silvestrini, i brani di pitture murali che ci guardano da sotto i pavimenti del primo piano, rappresentano le sole sopravvivenze all’opera, di questi monaci, all’interno del museo. Sopravvivenze che ci interrogano con la loro autorità di superstiti.

Riepilogando. Nel 1989 crollano i muri in Europa e collassa il corridoio del giovanato di San Marco. Si scopre, così, che Michelozzo ha ristrutturato, sopraelevato e non ricostruito un ex monastero decorato e dipinto.

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Vir dolorum, dettaglio di volto di Santo, pittura murale rinvenuta sotto il solaio della cella 22 del Dormitorio dei chierici

Intermittenze della memoria

Torniamo al Chiostro dei Silvestrini, oggetto di una campagna di scavi e documentazione dal 2010 al 2011 per conto dell’ex Polo Museale Fiorentino e la Soprintendenza per i beni archeologici della Toscana. Collocato nella fascia occidentale del convento lungo l’attuale Via La Pira, fa parte degli ambienti di servizio del complesso: cucine e locali riservati alla conservazione delle masserizie, collegati con i vicini refettori. Vi si accede attraverso la Corte del Granaio e consiste in un’area coperta da campate irregolari a crociera, con archi ribassati e colonne dai capitelli diversi tra loro, e un’area scoperta di pochi metri quadri, dove sono stati effettuati gli scavi. Nell’area scoperta, di 5,50 x 4,00, una volta ripulita dalla vegetazione e scavata, è stato possibile identificare un sistema di canalizzazioni di acque reflue composto di due bracci principali ortogonali tra loro, confluenti in un bacino di raccolta in ceramica grezza, ascrivibili sicuramente al progetto michelozziano di sistemazione idrica del convento. Le fonti confermano: «Sunt etiam in dicto orto per transversum 4or putei subterranei, descendentes usque ad aquam vivam ad deglutiendam aquam pluvialem, que ad ipsos descendit per meatus subterraneos, qui vulgo dicuntur fognie» (Codice San Marco 370, Biblioteca Laurenziana). Addossato a questo, è emerso un altro sistema di canalizzazioni più piccolo, di epoca successiva, con un pozzetto e un vano quadrangolare delimitato da tre muretti di pietra ben ammorsati tra loro, riempito di una cospicua quantità di materiale ceramico, mescolato a resti di cibo. Questo ambiente è quello che comunemente viene chiamato immondezzaio: «gli immondezzai sono fondamentali in archeologia – spiega Valeria D’Aquino – tutta la classificazione cronotipologica della ceramica tarda, dal IV all’VII secolo d. C., è ricostruita sulla base di un immondezzaio trovato nella Crypta Balbi a Roma».

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Chiostro Silvestrini con l’area degli scavi del 2010-2011
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Chiostro dei Silvestrini, sistema di canalizzazione acque reflue

Facendo un’accurata inventariazione dei materiali ceramici rinvenuti nel Chiostro, e un confronto con quelli emersi da sterri nel sottosuolo dell’attuale garage e degli uffici del museo eseguiti nel 1970, e da altri sbancamenti, nel corso del tempo, in altre parti del convento (Chiostro della Spesa, Chiostro di Sant’Antonino), sono venute fuori interessanti informazioni sui serviti conventuali utilizzati nel XVI secolo. Molti recano l’acronimo di San Marco, SM o SMO, in monocromo blu su sfondo bianco, in catini, ciotole, scodelle. Altri, cronologicamente posteriori, recano il leone di San Marco al centro di catini e piatti, con una resa spesso corsiva del disegno, dipinto in bruno e giallo ocra e pennellate di verde alla base.

Ma il dato più importante riguarda un campione di maioliche arcaiche e di ceramiche italo-moresche, rinvenute nello strato più profondo del chiostro, in corrispondenza di un corpo di fabbrica dalla forma spezzata che, per come è strutturato, risale indubbiamente al periodo precedente l’intervento di Michelozzo. Nel vano compreso tra questo corpo di fabbrica, il muro perimetrale del chiostro e un altro dello stesso spessore, perpendicolare al primo, sono stati trovati materiali edilizi di scarto presumibilmente risalenti ai lavori di ristrutturazione michelozziani, mescolati a queste ceramiche. Si tratta di serviti di particolare pregio, tutti con una stella a sei punte impressa alla base dell’ansa dei boccali: un marchio di fabbrica della famosa bottega artigiana di Tugio di Giunta, uno dei più importanti ceramisti inurbatisi a Firenze nel ventennio tra il 1359 e il 1379; noto come fornitore di spedali (Santa Maria Nuova in primis) e istituti ecclesiastici della città.

Il nome di Tugio di Giunta di Bacchereto e dei suoi discendenti è legato strettamente al controverso problema delle origini e della diffusione delle maioliche nell’area fiorentina, almeno fino alla metà del XV secolo. Le loro ceramiche sono conservate nei più importanti musei del mondo. I documenti e le fonti d’archivio raccolti da Galeazzo Cora nella sua monumentale Storia della maiolica di Firenze e del Contado (Firenze, 1973), collocano le fornaci dei maggiori ceramisti fiorentini soprattutto nelle zone d’Oltrarno, dentro la cerchia muraria di Arnolfo ma lontano dal centro della città, dove ampi spazi liberi, ancora agresti, offrivano sufficienti condizioni di sicurezza per i fumi delle fornaci. Non si conosceva, però, la loro esatta collocazione nel quartiere. In modo del tutto fortuito, come avviene quando si trova un pezzo di puzzle che si incastra nel punto in cui l’immagine è monca, nel 2015 degli scavi eseguiti in Via Romana, sempre da Valeria D’Aquino, vicino alle mura, per la realizzazione di un parcheggio interrato, hanno rivelato il luogo preciso in cui sorgeva la bottega con la fornace di Tugio di Giunta. Ancora una volta grazie alla scoperta di una serie di fosse, per l’approvvigionamento dell’argilla, e immondezzai, per la raccolta di materiali fittili di scarto.

Che i silvestrini avessero dei serviti con la stella a sei punte dell’atelier di Tugio di Giunta, che cioè fossero in grado di stipulare fino all’inizio del 1400 un contratto di fornitura di serviti con una delle imprese artigiane più in vista in città, ci conferma nell’ipotesi che tanto sprovveduti non dovessero essere, o che, quanto meno, non stessero mandando in malora il loro monastero, come vuole farci credere la propaganda medicea.

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Chiostro dei Silvestrini, scavi

Riconquista dell’eredità

Sempre nell’art. 2 della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa del 2005, si legge:

Una comunità di eredità è costituita da un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future.

«Ciò che hai ereditato dai padri – scriveva Goethe in un passo famoso perché ripreso nell’ultima opera di Freud, Compedio di psicanalisi – riconquistalo se vuoi possederlo davvero». Per ereditare qualcosa da qualcuno, per essere davvero una “comunità di eredi”, non è sufficiente ricevere passivamente un’eredità già costituita, ma è necessario un movimento soggettivo di ripresa, di soggettivazione del debito, di interrogazione critica della memoria. L’eredità non è una rendita. Erede non è colui che incassa dei beni. Soprattutto se questi non sono disponibili perché a lungo censurati, sepolti. La riconquista dell’ereditare è riconoscere il debito simbolico che l’eredità implica. Riconoscere il debito anche verso chi non ha avuto voce, verso i vinti della storia. I silvestrini, a tal proposito, sono i nostri vinti più prossimi.

Carmelo Argentieri

Per saperne di più:

AA.VV., La chiesa e il convento di San Marco a Firenze, Firenze, 1989

Damiani, L. Marchetti, M. Scudieri (a cura di), Rinvenimenti e restauri nel complesso monumentale di San Marco, Firenze, 1990

Valeria D’Aquino, Firenze. Complesso monumentale di San Marco: documentazione archeologica di resti strutturali, in «Notiziario della soprintendenza per i beni archeologici della toscana», 7/ 2011

Valeria D’Aquino, Firenze. Complesso monumentale di San Marco: nota preliminare sull’attività d’inventariazione e classificazione dei reperti ceramici post-classici, in «Notiziario della soprintendenza per i beni archeologici della toscana», 7/201

Vincenzo Vaccaro (a cura di), La chiesa di San Marco a Firenze. Una lunga stagione di restauri, Firenze, 2009

Per le pitture murali a soggetto profano, trecentesche e quattrocentesche, si rimanda all’articolo di Maria Beatrice Sanfilippo.

Per le attività e l’attuale diffusione della congregazione benedettina silvestrina, si rimanda al sito: http://www.silvestrini.org/

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Il convento di San Marco nel codice di Marco di Bartolomeo Rustici, 1441

3 commenti

  1. Articolo monumentale: dubito che molti vi siano arrivati fino in fondo – e questo sarebbe un peccato anche sotto il profilo di concreta condivisione di un’eredità culturale -, ma confermo il commento precedente. Com’è diversa la storia reale dai manuali scolastici e dalle ricostruzioni omologate, nei decenni sempre uguali fra di loro… Ma sì: l’autentico “rerum scriptor” è l’archeologo divulgatore, come non averci pensato prima?!

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