Beato Angelico alla nuova Galleria Sabauda di Torino. Piccola indagine sulla Madonna col Bambino, capolavoro da riscoprire.

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Fiore all’occhiello del Polo Reale di Torino, il 6 dicembre scorso è stata riaperta al pubblico la Galleria Sabauda, trasferita e riallestita nella “Manica Nuova”, l’ala umbertina di Palazzo Reale. Quattro piani, 8000 metri quadri, oltre 500 opere, capolavori di arte italiana e un’ imperdibile collezione fiamminga e olandese. Accanto a Mantegna, Veronese, Guercino e Tiepolo, si distinguono van Eyck, Memling, van Dyck e Rebrandt. Una galleria di gusto europeo, frutto del collezionismo di casa Savoia, istituita da Carlo Alberto nel 1832. Tra i dipinti più amati dal pubblico, una straordinaria Madonna col Bambino di Beato Angelico. Opera piena di fascino, ricca di dettagli, significati e simbologie. Ma non mancano i dubbi, gli aspetti poco chiari e gli interrogativi che, ancora oggi, attendono una risposta.

Madonna Sabauda

Si svela allo spettatore fra due drappi dorati che si aprono come un sipario. La Madonna col Bambino di Torino è un’opera bellissima, raro equilibrio di elementi contrapposti: dolce e misurata, ma allo stesso tempo solenne e austera. Una classica monumentalità, una salda impostazione prospettica e un grande impatto visivo, pur in dimensioni contenute (1 metro per 65 cm., ma in alto è stata tagliata). Fusione di due soggetti cari all’Angelico, la “Madonna dell’Umiltà” (in cui la Vergine siede per terra) e la “Madonna in trono” (qui una panca dorata con cuscino). Tre i colori dominanti: blu, rosso e oro. Il rosso ha un’importanza particolare. E’ rossa la veste di Maria (simbolo della sua umanità), coperta dal manto blu (simbolo della divinità che la avvolge). Sono rossi il cuscino, la spilla che le ferma il manto sul petto, la stella sulla spalla destra (Maria è Stella del mattino, perché precede l’Incarnazione), la croce sull’aureola del Bambino e i cerchi su quella della Vergine con la scritta “AVE MARIA”. Sono rosse, infine, le pareti della nicchia semicircolare sullo sfondo, quasi un’abside di chiesa, inquadrata da lesene scanalate e capitelli di stampo brunelleschiano. Sopra la nicchia, la volta si tinge di blu, come il manto di Maria. E’ il blu del cielo, è il blu di Dio.

Il dipinto proviene da Firenze, dove è attestato in alcune collezioni private, quella del principe Michele di Demetrio Boutourlin, poi quella di Achille Sandrini e, infine, quella del barone Ettore di Garriod, rappresentante del Regno di Sardegna a Firenze, collezionista e mercante d’arte. Da qui, nel 1852, giunse nelle collezioni sabaude. Per alcuni opera dell’Angelico, per altri prodotto di bottega, la Madonna della Galleria Sabauda è stata spesso sottovalutata ed è raro che sia stata inclusa fra i capolavori del frate pittore. Che cosa avrà causato queste incertezze? Di certo, non hanno aiutato le pesanti ridipinture (“è deturpata da cattivi restauri” sottolinea il catalogo del 1909). Solo nel 1951, infatti, l’intervento di Ettore Patrito, chimico e restauratore, ne ha svelato l’altissima qualità pittorica, restituendo, in particolare, il blu intenso del manto della Vergine e il prezioso gradino di marmo screziato in primo piano. Snobbato dalla critica moderna, il dipinto fu, invece, molto popolare fra i contemporanei dell’Angelico. Come dimostra un’altra opera, poco conosciuta, che si trova a Firenze.

Alle pendici del colle di Settignano sorge Villa i Tatti, luogo appartato di studi, un tempo residenza di Bernard Berenson, celebre storico dell’arte americano, e oggi sede del Centro per gli studi sul Rinascimento dell’Università di Harvard. Nella villa, oltre alla straordinaria biblioteca con oltre 170.000 volumi, si conserva ancora la pregevole collezione di dipinti acquistati dai Berenson, Bernard e sua moglie Mary. Fra le opere, c’è una tempera su tavola che, a prima vista, sembra una copia puntuale della Madonna della Galleria Sabauda.

Andrea di Giusto

Andrea di GiustoMadonna Sabauda

In realtà, a ben guardare, le differenze ci sono, nei dettagli e soprattutto nella qualità pittorica, e non si può parlare di una vera e propria copia. Tuttavia, è innegabile che il dipinto torinese sia stato il modello per quello fiorentino, che ne è dunque una derivazione. Si noti un dettaglio curioso. Nel dipinto dell’Angelico la veste rossa di Maria, in basso a destra di chi guarda, spunta fuori da sotto il manto blu. Lo stesso avviene nella tavola della collezione Berenson. L’autore potrebbe essere Andrea di Giusto, artista fiorentino della prima metà del 1400, molto influenzato dall’arte dell’Angelico. Il dipinto di Firenze dimostra che la Madonna di Torino era opera nota e di successo, tanto da diventare un modello per altri artisti. Ma la storia non finisce qui. Nella tavola della collezione Berenson, sul bordo inferiore della cornice, il cosiddetto “zoccolo”, si legge la data “MCCCCXXXV”, ovvero 1435. Si tratta, all’apparenza, di un caso più che fortunato. Conoscere la data della copia di Andrea di Giusto significa, infatti, datare anche il suo modello, la Madonna della Galleria Sabauda, dipinta necessariamente prima della sua copia, cioè prima del 1435. Tutto bene, quindi? Niente affatto. Il problema è che la maggioranza degli storici ritiene che Beato Angelico l’abbia dipinta a metà degli anni ’40, se non attorno al 1450, nella sua più tarda produzione artistica. Allora, dove sta la verità? Prima del 1435 o quasi venti anni dopo?

Madonna Sabauda

Il fatto è che, nel dipinto di Torino, la bellissima abside classica che fa da sfondo richiama elementi della piena maturità artistica dell’Angelico. Allo stesso modo, come suggerisce Andrea De Marchi, la piccola finestra a sinistra, quasi nascosta dietro al drappo, illumina lo spazio, gli elementi architettonici e il bel pavimento in cotto, creando raffinati giochi di luce e ombra, impensabili prima della metà degli anni ’40. Anche Giorgio Bonsanti colloca il dipinto attorno al 1450, “come fanno pensare l’insistenza antichizzante delle lesene scanalate e la solenne fissità delle forme”. Pope-Hennessy si orienta verso il 1450, Spike ritiene plausibile il periodo 1446-49. Anche per Marilena Tamassia, elementi quali la luce e l’architettura suggeriscono una datazione attorno al 1450. Solo per Berti, la tavola sarebbe da anticipare di qualche anno, al tempo della Pala per l’altare di San Marco a Firenze (1440-42). Sempre secondo De Marchi, “il corpo e il volto del Bambino, la sofisticata disposizione dei riccioli sulla frangia e ai lati della fronte, trovano il confronto più stretto” nella Madonna delle ombre del convento di San Marco (1445 c.a.).

Madonna SabaudaBambino Madonna delle ombre

 L’Angelico soggiorna a lungo a Roma a partire dalla metà degli anni ’40 e lavora prima per Eugenio IV e poi per Niccolò V, papi umanisti che promuovono, soprattutto il secondo, una stagione di rinnovamento artistico, urbanistico e architettonico della città. Beato Angelico, studiando l’arte classica e, forse, confrontandosi con le teorie sull’architettura di Leon Battista Alberti, si orienta sempre più decisamente verso composizioni monumentali e architetture solenni, di forte impostazione filologica e umanistica. Come testimonia il suo capolavoro romano, le Storie di Santo Stefano e San Lorenzo (1447-50), affrescate nella cappella di Niccolò V all’interno del Palazzo Apostolico (Musei Vaticani).

Cappella NiccolinaCappella Niccolina 2Cappella Niccolina 3

Le stesse influenze romane, già riscontrabili nella Madonna delle ombre del Convento di San Marco, databile fra il 1443 e il 1450, sono più che evidenti nella Pala di Bosco ai Frati (1450-52, Museo di San Marco).

Madonna delle ombrePala Bosco ai Frati

Il rapporto fra l’Angelico e l’Alberti è stato forse sottovalutato. I due, sicuramente, si sono già incontrati a Firenze alla fine degli anni ’30, quando vi soggiornava il papa Eugenio IV, al tempo del Concilio di Firenze e quando l’Alberti, a contatto con Brunelleschi, elaborava le teorie sulla prospettiva nel trattato De pictura. Ma è a Roma che, a partire dalla metà degli anni ’40, l’Alberti si dedica totalmente allo studio dell’architettura classica e sviluppa le idee che porteranno, attorno al 1450, alla stesura del fondamentale trattato De re aedificatoria. Sono gli stessi anni in cui l’Angelico dipinge per il papa. Entrambi collaborano fattivamente alla rinascita di Roma voluta da Niccolò V. E’ suggestivo pensare ad un confronto diretto fra l’architetto e il pittore, a discussioni, a scambi di vedute e, magari, a qualche visita comune ai monumenti antichi.

Con ogni probabilità, l’abside sullo sfondo della Madonna della Galleria Sabauda si ispira all’esedra centrale del Pantheon:

Madonna SabaudaPantheonPantheon 2

Ma paiono innegabili le analogie con alcune architetture dell’Alberti, quali il tempietto del Santo Sepolcro nella Chiesa di San Pancrazio a Firenze e, soprattutto, l’abside della chiesa di San Martino a Gangalandi presso Lastra a Signa, in provincia di Firenze. Qui le somiglianze sono davvero sorprendenti. Le due absidi, quella dipinta e quella reale, sembrano derivare da uno stesso progetto.

Tempietto del Santo Sepolcrosanto sepolcro Rucellai 2alberti-abside-gangalandi

Leon Battista Alberti fu rettore di San Martino in Gangalandi dal 1432 e, più tardi, anche pievano di Borgo San Lorenzo in Mugello. Nel suo testamento, scritto poco prima della morte (1472), dette disposizioni affinché si completasse la parte absidale di San Martino, definita “già iniziata e quasi terminata”.

San Martino 2Leon Battista AlbertiLeon Battista Alberti 2

 Resta da spiegare per quale motivo Beato Angelico ha dipinto di rosso le pareti della nicchia di fondo della Madonna di Torino. Perché non seguire la tradizionale bicromia bianco/grigio tanto cara al primo Quattrocento fiorentino? In realtà, il rosso di quelle pareti vuole rappresentare, probabilmente, un rivestimento marmoreo, come di porfido. Di nuovo, il modello potrebbe essere il Pantheon, i cui pavimenti e le cui pareti interne sono coperte di porfidi, alabastri e altri marmi. Ci sono, poi, gli esempi delle basiliche paleocristiane e delle decorazioni cosmatesche. Ma, ancora una volta, si può ipotizzare un legame con il pensiero di Leon Battista Alberti. Come hanno dimostrato gli studi di Christine Smith e di Giovanna Rasario, l’Alberti, accanto alle più note idee sulla struttura architettonica, intesa come ordine e proporzione, sviluppa una teoria di bellezza classica frutto dell'”ornamento”. In questa visione, la struttura, per essere più armonica e gradevole, ma anche per sottolineare i significati di “gloria e perennità”, può essere rivestita da decorazioni colorate, marmi, porfidi e diaspri, nei pavimenti, sui soffitti e alle pareti. Lo stesso papa Niccolò V avrebbe voluto costruire per la basilica di San Pietro un vestibolo “con gradini splendidamente ricoperti di marmo, porfido e pietra color smeraldo”. Sono idee che, in contesti fiorentini legati alla famiglia dei Medici, porteranno alle decorazioni marmoree dei monumenti progettati da Michelozzo, quali il Tempietto della SS. Annunziata e la Cappella dei Magi in Palazzo Medici Riccardi.

cappella dei magi 1cappella dei magi 2

Il porfido rosso, amato dagli imperatori romani e bizantini come simbolo di divinità, regalità e durevolezza del potere, viene utilizzato in contesti funerari tardo-antichi per esprimere significati religiosi di eternità e immortalità. Fino a diventare simbolo della passione e del martirio, di Cristo e dei santi. Anche nella Madonna di Torino, le pareti rosse della nicchia potrebbero avere il duplice e contrastante significato di regalità e martirio. Quella nicchia è come l’esedra di un monumento classico, esprime divinità, gloria e regalità. Ed incornicia il trono dove si mostrano Cristo Bambino, già consapevole della sua natura anche divina, e Maria regina. Ma, nel ribaltamento della prospettiva cristiana, quella nicchia diventa l’abside di una chiesa e quel trono si trasforma nell’altare della Passione e del sacrificio pasquale, di cui Cristo è allo stesso tempo sacerdote e vittima. A tale sacrificio è destinato il Bambino, a cui si unirà la Vergine, fino ai piedi della croce.

Madonna Sabauda

Una conferma di questa interpretazione (divinità/regalità vs umanità/sacrificio) potrebbe venire dall’iscrizione sul cartiglio tenuto dal Bambino (“EGO SUM LUX MUNDI ET VITIS VERA SUM”), che fonde due versetti del Vangelo di Giovanni, in cui Cristo rivela se stesso come “Luce del mondo” e “Vera vite” (“Ego sum lux mundi”, Gv 8,12; “Ego sum vitis vera”, Gv 15,1). Se, infatti, il riferimento alla luce che illumina il mondo, in contrapposizione al regno delle tenebre, è una proclamazione messianica di divinità e di una nuova forma di regalità, la seconda espressione rimanda alla dimensione eucaristica, nel duplice significato di comunione-sacrificio, dove Cristo è la vite, gli uomini sono i tralci e Dio Padre il vignaiolo che taglia e pota perché ci sia molto frutto.

marmi Madonna delle ombre

Beato Angelico era solito dipingere fantasiose decorazioni a finto marmo, nelle tavole e negli affreschi. Secondo l’interpretazione di Georges Didi-Huberman (Fra Angelico. Dissemblance et figuration, 1990), tali decorazioni dipinte rappresenterebbero figure “del dissimile”, ovvero dei segni pittorici che, al di là degli aspetti visibili, materiali e corporei, condurrebbero ad una dimensione sovrannaturale e teologica. Anche Ambrogio Traversari, monaco camaldolese, teologo e umanista, che tanta parte ebbe nella formazione dell’Angelico, ritiene che la bellezza dei marmi, del porfido e della luce riflessa dalla materia possano portare l’animo umano alla contemplazione di Dio. E il Traversari, a sua volta, è stato il traduttore e il divulgatore degli scritti dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita, secondo cui certi elementi non figurativi, ma di grande intensità visiva e coloristica, consentono di superare la distanza fra la fisicità naturale e la dimensione del Mistero. Queste considerazioni, nel caso della Madonna col Bambino di Torino, potrebbero valere sia per la nicchia con le pareti di porfido, sia per il colore rosso intenso di alcuni elementi, sia, infine, per il gradino di marmo screziato in primo piano.

Si segnala, infine, coerentemente con quanto esposto in merito al colore rosso, l’evidente analogia visivo-simbolica fra l’opera torinese, in particolare l’esedra sullo sfondo, e l’affresco di scuola angelichiana della cella 27 del convento di San Marco. Dove il soggetto di Cristo alla colonna, alla presenza della Vergine e di un santo domenicano che si flagella, è ambientato all’interno di un porticato (il pretorio romano) che, sorprendentemente, appare chiuso, o meglio rivestito, da pareti colorate di un intenso rosso-arancio.

cella 27

E’ tempo di tornare, in conclusione della nostra indagine, al difficile problema della datazione del dipinto. Gli elementi sin qui raccolti, storici, stilistici e iconografici, farebbero pensare ad un’opera tarda dell’Angelico, fra il 1445 e il 1450. Tuttavia, l’iscrizione che si legge sullo zoccolo della copia di Andrea di Giusto (Villa i Tatti, Firenze) costringe ad ipotizzare una data perfino precedente al 1435. E’ un enigma destinato a rimanere irrisolto. A meno che, come hanno ipotizzato alcuni, quell’iscrizione sia stata aggiunta successivamente, forse in epoca moderna, o, più semplicemente, che la cornice non sia originale. Al contrario, se quella scritta fosse attendibile, la Madonna della Galleria Sabauda sarebbe stata dipinta, clamorosamente, prima del 1435. L’unica certezza è che Andrea di Giusto muore nel 1450. Le due opere, la Madonna torinese dell’Angelico e la copia fiorentina di Villa I Tatti, devono essere state realizzate entro tale data. Non si sa per chi e non si sa quando. Forse negli anni ’30, forse negli anni ’40, o addirittura attorno al 1450, con un’oscillazione di ben venti anni! Resta così il mistero. Che è il bello dell’arte. Un motivo in più per recarsi a Torino e visitare la rinnovata Galleria Sabauda. Con un Beato Angelico tutto da riscoprire.

Alessandro Santini

Inaugurazione

 

Per saperne di più

Marilena Tamassia, Scheda dell’opera, in Fra Angelico et les Maîtres de la lumière, Fonds Mercator, Bruxelles 2011, p. 175

Andrea de Marchi, scheda dell’opera, in “Omaggio a Beato Angelico. Un dipinto per il Museo Poldi Pezzoli. Catalogo della mostra”, Silvana, Milano 2001, pp. 36-37.

Giovanna Rasario, La Sala Greca: una scoperta, in “La Biblioteca di Michelozzo a San Marco, tra recupero e scoperta”, a cura di Magnolia Scudieri e Giovanna Rasario, Giunti, Firenze 2000, pp. 49-96.

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